Dicono gli atlanti che la Sicilia è un’isola e sarà vero, gli atlanti sono libri d’onore. Si avrebbe però voglia di dubitarne, quando si pensa che al concetto di isola corrisponde solitamente un grumo compatto di razza e costumi, mentre qui tutto è dispari, mischiato, cangiante, come nel più ibrido dei continenti.
Gesualdo Bufalino comincia così, con questo incipit, il suo Cento Sicilie.
E continuando, fra le tante contraddizioni, osserva: Vi è una Sicilia “babba”, cioè mite, fino a sembrare stupida; una Sicilia “sperta”, cioè furba, dedita alle più utilitarie pratiche della violenza e della frode
Giovanna Di Marco, qui al suo esordio narrativo, in questo libro, ibrido fin nella struttura, racconta due storie con due registri linguistici e due ritmi.
Due storie ambientate tra la fine dell'800 e l'inizio degli anni Ottanta del secolo scorso caratterizzate l'una da uno smaccato materialismo e l'altra, per contrasto, da una carica di idealismo. A incarnare queste visioni del mondo opposte, due donne: Lucia, furba e a tratti spietata; Concetta, che crede nel socialismo anche come appartenenza a un paese della comunità alloglotta arbëresh. Entrambe, seppur in modo diverso, condizioneranno e plasmeranno le esistenze dei loro cari.
Nell’incanto del racconto, Giovanna Di Marco ci mostra le infinite stratificazioni di una terra e del suo popolo e così anche le altre irraggiungibili Sicilie.